Elio Fiorucci: il nostro ricordo per la scomparsa
Elio Fiorucci non è stato solo un protagonista della moda italiana, la sua capacità di leggere quel passaggio d'epoca tra la fine degli anni 60 e l'inizio degli anni 70 ne fece una sorta di demiurgo del costume che da Milano aprì le porte di un'Italia provinciale e bacchettona alla cultura pop di respiro internazionale. Negli anni '60 Elio Fiorucci portò la swinging London e Carnaby Street in Corso Vittorio Emanuele e una decina di anni dopo con la sua capacità visionaria costruì un ponte tra Milano e la factory di Wahrol, fino a far dipingere il suo store da uno dei padri della street art come Keith Haring. Chiamamilano vuole ricordare Elio Fiorucci ripubblicando un'intervista che ci concesse nell'ottobre del 2003 dove, manifestando il suo amore per Milano, continuava a guardare al futuro della città con il suo inguaribile ottimismo pop. |
PIU' COLORI, PIU' LUCE, PIU' BELLEZZA
Intervista a Elio Fiorucci (2003)
Se Le dico Milano cosa le viene in mente?
L’atmosfera di grande città proiettata nella trasformazione, la capacità di cambiare e guardare avanti. Mi ricordo la Milano della mia infanzia e della mia giovinezza, mi sembrava gigantesca e meravigliosa con la sua cintura di fabbriche che occupavano tutta la periferia e ai miei occhi erano il simbolo della metropoli. Poi Milano è cambiata, la sua forza economica non si è basata più sull’industria ma sui servizi, sul design, sulla moda; ma questa città è rimasta e continuerà ad essere il luogo simbolo del fare, il polo che attrae chi vuole crescere, chi vuole innovare. Non condivido assolutamente, forse perché sono un’inguaribile ottimista, chi rimpiange il passato e pensa che Milano abbia perso l’anima, si sia ripiegata su se stessa o sia divenuta una città invivibile.
A proposito di simboli e trasformazioni, una volta ci si dava appuntamento da Fiorucci, oggi al posto del suo storico negozio c’è il megastore H&M, un passaggio d’epoca, anche per il costume di questa città….
Forse è la magia di questo luogo –Elio Fiorucci si alza e guarda dalla finestra del suo ufficio che dà su quelle che erano le vetrine del suo storico negozio- ma i ragazzi continuano a darsi appuntamento davanti a quelle vetrine. Anche quelli di H&M sono dei rivoluzionari, con i loro allestimenti e l’atmosfera che c’è sono un po’ i nostri protutori. Certo la loro innovazione è forse più evidente dal punto di vista dei processi di produzione e distribuzione. La mia è stata un’esperienza di sperimentazione e coraggio creativo, di commistioni e anche provocazioni. Quando il 31 maggio del 1967 ho aperto lo store di Corso Vittorio Emanuele i negozi attorno si chiamavano Duca d’Este, Principe di Galles ed io invece avevo le commesse in minigonna, la top ten che portavo ogni settimana da Londra diffusa a tutto volume e abiti introvabili.
Non solo abiti introvabili e musica delle hit parade newyorkesi e londinesi, Lei ha portato la Londra degli anni ’60 nella Milano degli anni ’60 che allora viveva lo stesso decennio solo sulla carta…
Ho portato Carnaby Street in una Milano che era la città più europea d’Italia ma era anche assai provinciale rispetto ad altre città europee. I negozi qui attorno erano luoghi distanti dalla gente comune, dai giovani, dal vento di novità che iniziava spirare; prima che aprissi, qui in galleria Passerella c’era il negozio di elettrodomestici dell’alta borghesia milanese. L’inaugurazione di Fiorucci è stata un evento: Adriano Celentano che arriva su una Cadillac rosa, gli interni disegnati dalla scultrice Amalia Del Ponte, le commesse in minigonna. Fiorucci è stato per 36 anni il luogo in cui si andava per vedere cosa c’era di nuovo. Per tutto questo tempo abbiamo anticipato, a volte anche senza saperlo, nuove tendenze, siamo stati il primo caso in cui il nostro brand –intanto mi mostra la storica collezione di figurine in cui il nome Fiorucci non è mai scritto allo stesso modo- non è mai rimasto, violando le regole base del marketing, un logo stabile.
Forse non è una caso che tutto ciò sia avvenuto a Milano e sia riuscito a raggiungere anche New York nel 1976, dove nel Fiorucci store della 59esima strada, Andy Warhol presentava la sua rivista Interview.
Una specie di negozio performance, anche ricordando quando nel 1894 lei invitò Keith Haring ad “affrescare” il negozio di via Passerella. Ma oggi sarebbe possibile? La Milano di oggi è ancora un luogo capace di quel tipo di sperimentazioni e commistioni come le Sue?
Nel 1984, svuotai il negozio, comprai vernice spray, misi delle tavole di legno con delle bottiglie di vino e, mentre chiunque poteva entrare, per due giorni e due notti ininterrottamente Haring traccio i suoi graffiti. Credo sia un’esperienza irripetibile, ma sono convinto che ogni epoca abbia bisogno dei suoi innovatori, non sopporto i nostalgici che camminano rivolti all’indietro tra rimpianti e desiderio che tutto rimanga sempre uguale. Milano, come tutte le città si trasforma e deve continuare a trasformarsi, solo così si rimane vivi. Si diventa più belli, più aperti, più intelligenti. Ad esempio, trovo corso Vittorio Emanuele più bello oggi di 36 anni fa. Sono un ottimista istintivo e un amante della modernità. Se penso al passato ad un mondo fatto di grandi fatiche per avere una vita dignitosa ho l’impressione che viviamo meglio di cinquanta o quarant’anni fa trovo insopportabile chi si lamenta di ciò che abbiamo e soprattutto chi demonizza le cose che ha da tempo proprio quando diventano accessibili a tutti.
Il Suo amico Oliviero Toscani, proprio in un intervista su Chiamamilano, lanciò come slogan per descrivere una Milano secondo lui poco vivibile, incapace di accogliere, inquinata e sommersa da griffes “MORIREMO ELEGANTI”…
Non sono d’accordo con Oliviero. Milano è una città piena di vita, capace di crescere e di evolversi che ha fatto della moda e del design non solo una ragione economica ma anche un modo di essere. Io direi: VIVREMO ELEGANTI. Trovo che questa città negli ultimi anni sia diventata più bella, più vivibile ed anche più capace di accogliere e armonizzare le varie anime che la compongono, penso che questa Amministrazione stia facendo bene, anche se bisogna fare ancora molto sull’arredo urbano. Oliviero dal canto suo esercita bene il suo ruolo di provocatore e anche se a volte non sono d’accordo con lui penso che faccia bene a suscitare la discussione, come ha sempre fatto, anche con le sue foto più shoccanti ma mai volgari. Troppo volte manca la volontà di discutere, di approfondire di mettersi in discussione. Ma solo mettendosi in discussione si cresce.
E Milano sa mettersi in discussione?
Credo che non vi sia una sola Milano. C’è una Milano statica chiusa nei propri luoghi, nelle proprie cerchie ristrette e poi c’è una Milano più dinamica, maggiormente capace di comprendere e vivere le trasformazioni. C’è la città dei ricchi che più sembrano progressisti più sono conservatori e poi c’è una città “popolare” totalmente aperta, capace di innovare e di innovarsi. A volte penso che ai Milanesi i soldi facciano uno strano effetto: invece di allargare gli orizzonti glieli restringono. Trovo che la grande borghesia milanese da anni viva separata dal resto della città, chiusa nel proprio ambiente, spesso incapace di cogliere il segno dei cambiamenti.
Da quando ha iniziato la Sua attività lei ha girato il mondo in cerca di nuove tendenze, soprattutto quando il mondo era un luogo remoto. Negli ultimi anni tanti volti del mondo sono arrivati a Milano. Il meltin’pot non è più solo tra gli scaffali…
Credo che il meltin’pot a Milano ci sia sempre stato; un meltin’pot minore, un po’ casereccio, ma c’è sempre stato:prima con gli immigrati Veneti, poi con i meridionali negli anni ’50 e ’60. Ricordo ancora i primi meridionali che come dimostrazione d’amore per questa città utilizzavano termini milanesi con la loro cadenza dialettale. Ricordo l’atmosfera di una Milano che mi pareva bellissima a me bambino ritornato in città dopo la guerra. Una città che iniziava subito ad aprirsi a chi veniva da fuori.
Milano è una città fortemente attratta dall’altro in quanto attrae tutti: una sorta di America in piccolo: tutti arrivano con una possibilità, tutti possono diventare Milanesi, entrare a far parte di quella città dinamica e aperta che prima definivo la Milano “popolare”. Basta guardare ai tanti immigrati extracomunitari arrivati qui e divenuti in pochi anni imprenditori. E’ indubbiamente un processo difficile, con molte contraddizioni, ma credo che Milano sia una città capace di questo miracolo.
Negli scorsi mesi c’è stata una grande polemica sulle mega affissioni che hanno invaso la città. Da uomo di moda e di comunicazione che ne pensa?
Sono favorevolissimo alle mega affissioni pubblicitarie, le trovo bellissime e, ad esempio, lascerei le affissioni sui Caselli di Porta Venezia che trovo bruttissimi. Anzi, se dipendesse da me li abbatterei e farei una struttura permanente per la pubblicità, per della bella pubblicità. Il problema vero non è che le mega affissioni coprano edifici come i Caselli di Porta Venezia, ma che non siano abbastanza belle. La polemica contro questo tipo di pubblicità non la capisco, c’è una certa ipocrisia nel denigrare una forma di comunicazione come la pubblicità che alla città ha dato moltissimo, non solo in termini economici.
In questa città ci vogliono più colori, più luci, più insegne al neon. Altrimenti ogni città viene coperta da una coltre di tristezza. Bisognerebbe dare incentivi volumetrici a chi abbatte edifici brutti per ricostruirli belli. La città e la casa di tutti e ha bisogno di bellezza.
Beniamino Piantieri