La decisione di Giuliano Pisapia di non correre per un secondo mandato alle amministrative del 2016 apre uno scenario politicamente nuovo, temuto da alcuni, auspicato da altri, sorprendente per molti milanesi, ma che, indubbiamente deve indurre a riflettere sul significato degli ultimi quattro anni e sulla loro eredità.
Dopo un ventennio di governo del centrodestra, che ha fatto di Milano la vetrina della devoluzione privatistica dello spazio pubblico e dei processi decisionali dell’amministrazione l’antitesi della partecipazione civica, la vittoria di Pisapia nel 2011 rappresentò uno di quei turning poit che segnano la storia di un paese, rendendo evidente la crisi irreversibile dell’asse che allora governava l’Italia e indicando chiaramente che si era entrati in una nuova fase politica.
Quella vittoria –anche essa non del tutto inaspettata, ma comunque inedita– non fu solo un evento politico che segnava, sia per Milano che per il paese, una discontinuità. Apriva una serie di possibilità inedite, anzitutto quella di un rapporto diverso tra cittadini e amministrazione, l’opportunità di costruire un linguaggio comune capace di accogliere all’interno dei processi decisionali le istanze di partecipazione dei cittadini. Come era inevitabile per processi che implicano un cambiamento radicale della relazione tra amministrazione e cittadini, queste possibilità sono state colte solo in parte.
A questa semina non basta una stagione –politica– per dare un raccolto.
Eppure è questa l’eredità da preservare e sulla quale costruire un percorso comune, prima dei nomi e dei perimetri di coalizione: continuare a nutrire il seme attecchito in un terreno che nemmeno vent’anni in cui Milano era stata filiale di Arcore e dependance di Gemonio erano riusciti del tutto a inaridire.