Ancora buio per il futuro dell'area Expo. Unica certezza: l'acquisto dei terreni è stato un pessimo affare per Regione e Comune
Mancano appena tre mesi all'avvio di Expo e mentre nei cantieri si lavora ventiquattro ore su ventiquattro per colmare i ritardi accumulati, il vero count down è quello che riguarda il futuro delle aree una volta chiusi i battenti dell'Esposizione universale. Se l'obiettivo ufficiale è quello di arrivare all'inaugurazione del 1 maggio con il sito finalmente completato, evitando così la figuraccia internazionale, la preoccupazione vera è per cosa accadrà a partire dal 1 novembre. |
Le ipotesi attualmente sul tavolo, dal parco tecnologico per le piccole imprese -come se una Silicon valley padana potesse svilupparsi per decreto- alla fantomatica cittadella dello sport, sono quanto mai aleatorie. Anche il coinvolgimento delle università milanesi -allo stato dei fatti niente più che un'intenzione- per disegnare il futuro dell'area se mai potrebbe diradare la nebbia sul destino funzionale, non risolverebbe il problema principale: come uscire dal vicolo cieco di un enorme rischio economico sempre più concreto.
Oggi i soggetti pubblici che hanno acquistato dai privati i terreni che ospiteranno Expo, dopo aver dovuto dare garanzie alle banche che hanno finanziato l'operazione, rischiano seriamente di bruciarsi le dita con un cerino, costato almeno 350 milioni di euro, che nessuno ha intenzione di sfilare dalle dita di Regione, Comune e Fondazione fiera e considerate le quote di partecipazione in Arexpo sarebbero anzitutto Palazzo Lombardia e Palazzo Marino -cioè i contribuenti milanesi e lombardi- a subire la minusvalenza più consistente.
Beniamino Piantieri