Se la crisi permette di ripensare lo sviluppo urbano a partire dalle persone e non dal cemento

Complice inoltre il surriscaldamento del mercato tra la seconda metà degli anni ’90 e i primi anni del nuovo millennio, il settore è stato il primo a mostrare segni di cedimento, anzitutto con la stasi delle compravendite su cui si innestata la chiusura dei rubinetti del credito da parte delle banche, le quali fino al 2007/2008 avevano concesso i mutui con una facilità che a volte sembrava addirittura azzardata, alimentando così il ciclo del mattone.
Si tratta della vistosissima punta di un iceberg il cui sommerso è fatto di sterminate cubature (residenziali e commerciali) vuote o addirittura rimaste sulla carta dei progetti.
Come ogni simbolo, i mancati –per ora– grattacieli di City Life richiamano un universo assai più complesso della semplificazione che rappresentano a prima vista. Raccontano, infatti, nella plasticità paradossale della propria assenza il mancato sviluppo urbano –inteso come intreccio di sapere, società, produzione e qualità della vita– mascherato da crescita edilizia.
È stato infatti questo il leit motiv dell’ultimo ventennio: l’affidarsi, peggio che miope, al solo ciclo di valorizzazione di quella che, con un linguaggio forse arcaico ma ancora efficace, si può chiamare rendita fondiaria, ipervitaminizzata però dalla finanza e fluidificata dalla necessità di far circolare rapidamente ingenti –e non sempre tracciabilissimi– capitali.
Il gioco, come spesso accade in questi casi, si è però infranto contro la realtà: a Milano non ci sono abbastanza persone per riempire tutte le case. O meglio non ci sono abbastanza persone che abbiano le risorse per riempirle poiché, paradosso nel paradosso, da un lato c’è residenza vuota dall’altro, a seconda delle stime di Caritas e ministero dell’Interno, almeno 10.000 persone che a Milano vivono in condizioni di estrema precarietà abitativa: dalla strada ai campi nomadi, dalle baracche ad abitazioni inagibili occupate. E sono aumentate del 70% tra il 2008 e il 2011.
Anche se fossero solo questi i numeri con i quali confrontarsi sarebbe necessario riaprire un dibattito profondo sull’urbanistica, intesa non come è stata considerata per troppo tempo, cioè quanto costruire, dove e con quali vincoli, ma come qualità del rapporto tra la collettività dei cittadini e spazio in cui essi vivono, significato delle funzioni e la loro necessità e accessibilità, bilanciamento tra presente e futuro che deve essere analizzato a partire dalle prospettive demografiche prima che da quelle dei rendimenti degli investimenti immobiliari.
Se la crisi attuale ha anche un solo aspetto positivo, esso è che impone a tutti un ripensamento di quello che fino a poco fa si è “inteso” per sviluppo urbano, incentivato dalle pessime leggi regionali in materia e che nel 2011 stava per essere cristallizzato in un PGT che vagheggiava una Milano di due milioni e mezzo di abitanti tra vent’anni quando ve ne saranno, secondo le stime più generose, non più di un milione e trecentocinquantamila.
Le urgenze del presente impongono di ritornare a pensare il futuro della città a partire dai cittadini e non dalle costruzioni. Le prime avvisaglie di un cambio di direzione iniziano ad intravedersi. Troppo presto per dire se si tratti di una pausa dettata dalla necessità o da un’inversione di rotta dovuta a convinzione. Ma è indubitabile che una città non è un succedersi di sempre più edifici sempre più vuoti.
Beniamino Piantieri