Nonostante le primarie sembrino essere considerate, almeno ufficialmente, il veicolo irrinunciabile per avviare la marcia alla successione di Pisapia e quest'ultimo abbia confermato pochi giorni fa in un'intervista di non avere alcuna intenzione di correre per un secondo mandato, la situazione è, per così dire, quanto mai fluida.
Non è un mistero che il presidente del Consiglio farebbe volentieri a meno delle primarie, ma a Milano questo strumento non ha registrato le opacità né ha lasciato le code velenose che si sono viste altrove, anzi, nel 2011 ha contribuito in modo determinante alla coalition building e ha dato il via a quella narrazione (per utilizzare un concetto assai caro agli spin doctors del Premier) che ha portato il centrosinistra alla guida di Palazzo Marino dopo un digiuno durato decenni.
Sarebbe impossibile far comprendere agli elettori milanesi del centrosinistra una rinuncia alle primarie: un passo che, peraltro, comporterebbe un automatico "rompete le righe" di una coalizione in cui da mesi le fibrillazioni si fanno sempre più frequenti e alle quali non sono estranee -per utilizzare un eufemismo- pressioni provenienti dai vertici nazionali dei partiti.
Ognuno dei protagonisti, a Milano come a Roma, sa bene che la partita delle amministrative del prossimo anno, anche in ragione di quanto potrebbe accadere nelle altre grandi città coinvolte nella tornata elettorale, è un banco di prova troppo importante.
Eppure rinunciare alle primarie -soprattutto dove hanno dato una delle prove migliori- o, comunque delegittimarle discutendo solo di nomi senza confrontarsi su un progetto di città e di comunità, questo sì che fa vecchia politica, seppure molto 2.0.
B. P.