I tre giorni del voto visti da vicino, molto vicino

La giornata dello scrutatore stavolta dura 33 ore e comincia sabato, alle 16.
Primo giorno.
Arrivo trafelato ma puntuale, metto piede nella scuola in cui ho fatto le elementari sotto lo sguardo vigile degli ufficiali di turno ed entro nell’aula travestita da seggio dove tutti i miei timori vengono immediatamente confermati. Lì sorge la prima domanda: ma l’Ufficio Elettorale sorteggia a caso o si appoggia a qualche agenzia di intrattenimento? Questi sono veramente i miei compagni di seggio o sono su ‘Scherzi a parte’? Inizio a pensare che le mie 33 ore si dilateranno e prenderanno le proporzioni di un castigo biblico. Inizio anche a pensare che i miei compagni di scrutinio probabilmente sono un campione significativo della popolazione nazionale e questo non è un buon auspicio ai fini del risultato elettorale.
Mentre aspetto osservo le nuove cabine in alluminio e mi chiedo quanti soldi siano stati spesi per tutto questo, finchè arriva il momento di timbrare le schede e uno dei miei compagni scrutatori mi fa esplodere sui pantaloni la boccetta dell’inchiostro. A denti stretti sorrido e dico che no, non fa niente, ma in cuor mio penso che si tratti di un altro presagio di sventura. Ma la cancelleria dove l’hanno comprata? Le penne non scrivono, i timbri non timbrano, l’inchiostro esplode e spuntano buste di varie forme e colori da ogni dove.
Vabbè. Dopo aver contato le schede quattro volte, con i pantaloni imbrattati mi avvio verso casa: sono le 20.30.
Secondo giorno. Si vota.
Sveglia alle 7, apertura seggi alle 8 segnata dal suono della campanella: gli elettori cominciano ad arrivare, e con loro la rappresentazione di un’umanità varia ed eventuale. Chi si precipita diretto in cabina senza prendere le schede, chi si è trasferito da due anni ma pretende ancora di votare “al mio seggio di sempre”, chi vuole solo fare conversazione e chi tira fuori dalla borsa tre o quattro telefonini e li rovescia a valanga tra un’urna e l’altra. In questo scenario i fantasmi dei rappresentanti di lista vagano inquieti tra un’aula e l’altra. Fin qui niente di grave. Il primo pasticcio accade alle 9.20, quando si presenta a votare un ragazzo di 19 anni e la mia compagna di scrutinio non ha capito che i minori di 25 anni non votano per il Senato: sulla lista c’è scritto, sì, ma lei lo legge dopo, dopo che l’ignaro (?) diciannovenne ha già imbucato sia la schedina rosa che quella gialla. Al presidente di seggio, un brav’uomo di oltre settant’anni per il quale la gestione dell’emergenza è un concetto relativo, viene quasi un colpo: e adesso come facciamo? Chi sbaglia paga, ma anche questo è un concetto relativo, così l’autrice del pasticcio decide, per far tornare i conti, di votare nel nostro seggio anche se non è il suo di appartenenza, e imbuca solo la scheda della Camera. E tutto resta inter nos. Poi arriva una donna sulla quarantina che ha letto su un blog che può rifiutare le schede, e il presidente va di nuovo in crisi perché non sa come registrarla e dove mettere le schede rifiutate: ognuno dice la sua, e quando la questione viene risolta con gran dispendio di forze, la tizia non se ne va e insiste “ma non volete sapere la motivazione del rifiuto?”. Anche no, grazie. Debellata questa, si presenta una vecchina che dopo 15-minuti-15 di permanenza in cabina si affaccia e chiede dove deve mettere la croce: in effetti nell’ultimo mese se lo sono chiesto in tanti, signora.
La lunga giornata si chiude alle 22 col suono della campanella: l’affluenza alle urne è stata del 69% e, contando le schede rimaste, i numeri non quadrano. Ma non importa, domani è un altro giorno e i conti continueranno a non quadrare. Sotto molti punti di vista.
Terzo giorno.
Sveglia alle 6, apertura seggi alle 7 segnata dal suono della campanella. Piove e fa freddo, nelle prime due ore l’affluenza è davvero scarsa. Arriva una signora disperata e si mette a piangere perché due giorni prima ha perso la figlia in un incidente: cala un silenzio imbarazzato che viene interrotto solo da un vociare alto e confuso. Un rappresentante della Sinistra Arcobaleno è venuto alle mani con un altro rappresentante e sono intervenuti i carabinieri per separarli. Quando si dice la passione politica.
A poco a poco si avvicina il momento fatidico: alle 15 la campanella suona per l’ultima volta e inizia lo scrutinio. Tutti iniziano a ricevere telefonate con informazioni di vario genere derivanti dai più svariati exit-poll: approntiamo i tavoli, solleviamo lo scatolone che... si sfonda. Così dobbiamo ricomporlo e raccogliere tutte le schede per poi ri-rovesciarle all’interno. Per non confonderci, dice il presidente con marcato accento napoletano, dirò ‘Berlusconi’ e ‘Veltroni’ invece che Pdl e Pd. Così inizia lo stillicidio: manco a farlo apposta i due si alternano a ritmo serrato con un testa a testa da formula uno, Berlusconi -Veltroni - Berlusconi - Veltroni... e le matite segnano in rossoblu decine e decine di stanghette. In breve appare chiaro che qualcuno li marca stretto. Lega Nord, Lega, Lega Nord, ancora Lega...
Ogni tanto compare qualche scheda con insulti di vario genere, ma la fantasia scarseggia. Finito il Senato il panorama è già chiaro, e mentre spogliamo le schede della Camera il dado è tratto.
Si son fatte le dieci, i risultati sono ormai noti, il carrozzone mediatico è già in movimento. Finalmente mi separo dai miei compagni di seggio e torno a casa, pensando a quella scena di Indiana Jones e l’ultima crociata in cui al giovane archeologo sottraggono una preziosa croce dorata e uno dei banditi gli dice “Oggi hai perso, ragazzo. Ma non significa che debba piacerti”.