La penetrazione delle mafie a Milano è profonda non si può voltare la testa dall’altra parte

Non si tratta certo di una novità. Se è vero che nel corso degli anni ’90 abbiamo assistito ad una mutazione dell’attività della criminalità organizzata a Milano con una sorta di “postfordizzazione” è altrettanto vero che la presenza, in senso lato, mafiosa nel capoluogo lombardo è una costante dal secondo dopoguerra.
Da Joe Adonis negli anni ’50 a Luciano Liggio e Pippo Calò negli anni ’60 e nei primi anni ’70, passando per Francis Turatello e Angelo Epaminonda, con i clan calabresi a dominare fin dagli anni ’60 buone fette dell’hinterland cittadino, la criminalità organizzata ha fatto di Milano un centro gravitazionale di primo piano.
Un tempo si diceva che la mafia in Sicilia sparava e a Milano faceva gli affari. Non è del tutto vero: anche in Sicilia si facevano affari e anche a Milano si sparava. Ma è vero, invece, che a Milano la mafia non ha mai girato con la coppola. Infatti, ha utilizzato la città come luogo privilegiato per entrare con i propri ingenti capitali nel circuito dell’economia legale, per arrivare a condizionarla facendo pesare più la forza economica che quella delle armi. Essendo proprio per questo addirittura più pericolosa, anche perché tale strategia impone necessariamente l’invisibilità.
Non è un caso se quella mutazione di cui si diceva, avvenuta nel corso degli anni ’90, ha lasciato il campo libero a gruppi albanesi, nordafricani, nigeriani, romeni e moldavi per le attività più rischiose e socialmente allarmanti quali prostituzione, spaccio di stupefacenti, traffico di clandestini. Si è assistito ad una sorta di “esternalizzazione” delle attività di strada per concentrarsi su livelli più alti, redditizi e soprattutto meno visibili. “Esiste una pax mafiosa che governa il territorio –ha sostenuto Raffaele Grassi, capo della seconda divisione dello Sco (Servizio centrale operativo) – ci sono accordi per consentire all’illegalità straniera di occupare spazi di mercato.”
A fronte di questo scenario, che non dovrebbe costituire una sorpresa almeno per gli Amministratori e che non si discosta dai tratti caratteristici che la criminalità organizzata ha assunto a Milano nel corso dei decenni, stupisce che il Consiglio comunale abbia bocciato la proposta presentata dall’opposizione di istituire una Commissione d’indagine sugli interessi mafiosi nella città.
La maggioranza ha respinto la proposta considerandola inutile poiché su questi fenomeni operano le forze dell’ordine e la magistratura.
Eppure il punto non è questo. L’importanza di una Commissione del Consiglio comunale che indaghi sulla ramificazione e sulla profondità della penetrazione degli interessi della criminalità organizzata nel tessuto economico cittadino avrebbe anzitutto il ruolo di richiamare l’attenzione della città intera sulla portata di un fenomeno che inquina il tessuto produttivo e civile.
Il punto in questione non è l’efficacia investigativa di un organo composto da consiglieri comunali, anche se in passato –all’inizio degli anni ‘90– un’analoga Commissione diede risultati apprezzabili, bensì la capacità dei rappresentanti dei cittadini di attivare quella mobilitazione civile che è uno degli strumenti –ce lo stanno insegnando i ragazzi di Locri e la Confindustria siciliana– per combattere le mafie.
In tempi di fiaccolate per la sicurezza sembra assai miope un rifiuto di questo tipo.
Certo è più facile marciare contro Rom, prostitute, pusher e borseggiatori minorenni, ma a meno che non si miri solo al consenso elettorale immediato, per “proteggere Milano” è necessario seguire anche le strade più difficili.
Beniamino Piantieri