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IL PRIMA E IL DOPO

31/3/2020

 
Passeggiata virtuale fra la letteratura della peste: dal campo acheo a Orano, passando da via Laghetto
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Non è rimasto nessuno che non abbia citato in questi giorni, a mezzo stampa o durante una chiacchiera, Manzoni e Boccaccio: in tempi di incertezza e paure più o meno giustificate, è utile e a volte comodo appoggiarsi alle stampelle letterarie di chi ha raccontato qualcosa di simile a ciò che sta accadendo ai giorni nostri con la pandemia da Covid-19. Poichè il nostro spazio fisico in via Laghetto è ovviamente chiuso, abbiamo pensato di tenervi compagnia per qualche minuto con un piccolo approfondimento, una sorta di passeggiata virtuale (senza alcuna pretesa di esaustività) attraverso quella che potremmo definire la letteratura della peste, o meglio un tema che inizia prima ancora della letteratura con i poemi omerici e arriva ai giorni nostri, toccando (anzi no) anche via Laghetto, che com’è noto fu – durante la peste del 1630 – l’unica zona di Milano che rimase immune.

In principio fu il morbo acheo, nel primo canto dell’Iliade: Apollo, furioso con Agamennone poiché non aveva reso onore al suo sacerdote Crise, scatena la peste sull’esercito: “(…) Irato al Sire/ Destò quel Dio nel campo un feral morbo,/ E la gente pería (…)”. Questa è la traduzione del Monti, che rende bene tre informazioni fondamentali: la fatalità della malattia, l’ira del dio che punisce l’umano, e la potenza della parola del narratore che le racconta. Punizione divina, dunque, come altro spiegare tutti quei caduti. Ed è qui che la peste diventa un topos letterario: luogo, appunto, della fragilità dell’uomo e forse del suo male di vivere, quale che ne sia la causa.
La storia e la scienza arrivarono dopo: Tucidide, sopravvissuto alla peste di Atene del 430 a. C. pur avendola contratta, la descrisse minuziosamente, più sul versante fenomenologico che su quello psicologico, nella Guerra del Peloponneso. “Io, per conto mio, dirò come si è manifestato (il morbo) e con quali sintomi; così che, se un giorno dovesse di nuovo tornare a infierire, ognuno che stia attento, conoscendone prima le caratteristiche, abbia modo di sapere di che si tratta”. Quasi a redigere un bollettino sanitario, Tucidide descrive i sintomi della malattia (fra tutti, calore di testa, occhi sanguigni, convulsioni e pustole), la consunzione dei corpi, lo scoramento delle anime, i mucchi di cadaveri e le fosse comuni: non indaga né ipotizza le cause del contagio (“Mi basterà dire come ella fu, perché anch'io ne soffrii e vidi gli altri soffrirne”), e descrive piuttosto lo stato delle cose, senza offrirne spiegazioni moralistiche. Che il male (fisico e mentale) sia ciò che davvero importa nella narrazione, inizia ad essere chiaro.
All’opera di Tucidide guarderanno in molti, nei secoli successivi, e uno è Lucrezio nel De Rerum Natura, dove la questione viene affrontata con un approccio misto, filosofico e insieme scientifico: si comincia dal caput, che registra i maggiori sintomi, per passare poi ai segni della peste sulla bocca, uno su tutti il particolare della lingua che perde sangue e non consente più l’uso della parola (Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat atque animi interpres manabat lingua cruore debilitata malis, motu gravis, aspera tactu): come a dire che il male toglie all’uomo ciò che lo rende tale, la parola. E se l’impotenza e la fragilità sembrano farla da padrone, è pure vero che la ragione si fa strada e con lei un pensiero scientifico che presenta le sue istanze.
Fra i testi in latino che toccano l’argomento, le Metamorfosi di Ovidio (canto VII, quando l’ira di Giunone diffonde il morbo sull’isola di Egina: “Ma il flagello era tale che ogni soccorso era vano, e arrendersi bisognava”) e le Georgiche virgiliane, che nel libro III descrivono una peste nel mondo animale “un tempo comparve una temperie maligna per l’aria cattiva, e il cielo divenne infuocato di tutto il calore di agosto”.

Qualche secolo dopo – siamo sul finire del IX d.c. - lo storico longobardo Paolo Diacono descrive, nella sua Historia Longobardorum, la peste che colpì l’Italia negli ultimi anni dell’impero di Giustiniano (527-565 d. C.), sottolineando, significativamente, il senso di desolazione e di morte diffusosi, non solo tra gli uomini, ma nello stesso paesaggio: “Si poteva osservare come la natura era stata riportata all’antico silenzio: nessuna voce in campagna, nessun fischio di pastore, nessun pericolo di animale contro il gregge, nessun danno ai volatili domestici. Il grano, passata la stagione, aspettava intatto la falce del mietitore; la vigna, senza foglie, rimaneva carica di uva nonostante l’avvicinarsi dell’inverno… Non restava alcuna traccia dei passanti, non si vedeva nessun assassino e tuttavia gli occhi erano stracolmi della visione di cadaveri”.

Paolo Diacono è un citazione obbligatoria, anche perché probabilmente la sua opera fu consistente ispirazione per un’altra, divenuta poi ben più famosa: non troppi anni fa infatti è stato scoperto “un manoscritto, Harley 5383, conservato presso la British Library di Londra, contenente una copia quasi completa dell’Historia Langobardorum, scritta e glossata direttamente da Boccaccio”. Saltando ancora qualche secolo (ma anche la peste sembra farlo) arriviamo infatti a Giovanni Boccaccio, che - in tempi di peste nera – mette in scena un autoisolamento ridanciano e leggero, con frequenti fughe a tema erotico: dall’Asia alla Sicilia attraverso la Siria, la peste dilaga in Italia e raggiunge Firenze nell’aprile del 1348, e prima di abbandonarsi alle cento novelle narrate dalle sette donne e tre uomini nel Decamerone, il Boccaccio offre del morbo una descrizione dettagliata.

“Umana cosa è aver compassione degli afflitti”, così comincia l’opera nel proemio, e prosegue nell’introduzione alla prima giornata raccontando quanto accade con parole come queste: “E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva sangue del naso era manifesto segno d’inevitabile morte; ma nascevano nel cominciamento d’essa, a’ maschi et alle femine parimente, o nell’anguinaia sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, et alcune più et alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan Gavóccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavócciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere et a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le coscio, et in ciascuna altra parte del corpo, apparivano a molti, a cui grandi e rade, et a cui minute e spesse”. Dettagli dunque, degli effetti fisici che il contagio ha sui corpi, ma non solo: Boccaccio descrive anche le reazioni popolari e quella che possiamo chiamare “peste morale”: anche nel Decamerone la peste è punizione divina (“quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza”), e tra chi si ritira nell’ascetismo e chi si abbandona ai piaceri della carne e della gola, resta che per tutti il comun denominatore è il venir meno di ogni forma di solidarietà e di civile convivenza. Non c’è spazio per la pietà verso chi sta male, molti abitanti della città fuggono nelle campagne per evitare il contagio, i morti vengono seppelliti in fosse comuni.
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Per parecchi secoli la peste scomparve dall’Europa, per lo meno con epidemie di quelle dimensioni. Vi furono numerosi focolai sparsi, a Napoli nel 1400 ad esempio, o a Milano durante il XVI secolo, finché un contagio più violento si verificò nel 1630: è quello di cui narra Alessandro Manzoni nei capitoli 31 e 32 de I Promessi Sposi (ricordiamo che la prima edizione è del 1827) e nella Storia della colonna infame (per queste narrazioni Manzoni si servì di diverse fonti tra cui il De pestilentia del cardinal Federico Borromeo che introduce la figura dell’untore). Nota da lì in poi come “peste manzoniana”, Manzoni la mette in scena non soltanto al fine di “rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto”. E via dunque col racconto (completo e accurato) di come il contagio entrò a Milano, dell’inadeguatezza delle autorità (“la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza”), le ipotesi su quello che oggi chiameremmo “il paziente zero” (“questo fante sventurato e portatore di sventura”), il lento sopraggiungere – con l’aumentare dei casi – delle “grandi angosce”: una progressione che l’autore riassume così, concentrandosi sul senso della parola stessa: “In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”.

Il 4 maggio del 1630 gli eventi precipitano e il consiglio dei decurioni decide di ricorrere all’aiuto del governatore e di chiedere all’arcivescovo Federigo una processione solenne in città, a seguito della quale il contagio, manco a dirlo, esplode: sono queste le pagine degli untori e dei monatti, del lazzaretto e delle fosse di cadaveri, e di quella che oggi chiameremmo “infodemia” (“da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia”). Pubblica follia, o altrimenti detto, sul finire del capitolo “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Sempre qui, in punta di capitolo, Manzoni annuncia la Storia della Colonna infame, che tratta del processo e della condanna di Gian Giacomo Mora e del Piazza come untori.

Mentre il morbo imperversava ovunque, a Milano ci fu un gruppo di case che incredibilmente non fu toccato dal contagio: è quello intorno a via Laghetto, una sorta di quadrilatero fra piazza Santo Stefano e l’Università (all’epoca Ca’ Granda, ospedale maggiore). Qualcuno diceva che la ragione fosse una strega residente in via Laghetto al civico 2, per l’esattezza “la strega delle streghe”, che aveva realizzato un incantesimo contro la pestilenza. Una spiegazione più razionale si può invece trovare nella funzione che aveva in quel periodo la zona: proprio in via Laghetto c’era il “porto” dove veniva scaricato il marmo destinato alla Veneranda Fabbrica del Duomo, insieme ad altri materiali quali legna e carbone. Tencitt, venivano chiamati i carbonai che, tutti sporchi di polveri, sembravano tinti di nero. Tutta la zona era ricoperta di polvere nera, ed è noto che il carbone abbia poteri assorbenti e disinfettanti. A fine epidemia, un dipinto a fresco fu posizionato sul muro esterno dell’edificio sito tra via Laghetto e vicolo Laghetto a titolo di ringraziamento e di devozione verso la Madonna che aveva miracolosamente risparmiato la Ca de’ Tencitt. Il dipinto è visibile ancora oggi.
Nel 1947 Albert Camus dà alle stampe La peste: “I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 194… a Orano”. Comincia così il racconto di un’epidemia che a differenza delle molte pesti narrate in letteratura nei secoli precedenti non è basato su fatti epidemici realmente accaduti e storicamente circostanziati ma è piuttosto metafora di altro genere di peste: basti dire che gli anni quaranta in Europa furono quelli del nazionalsocialismo. Allargando il quadro, è la natura umana stessa ad essere protagonista della vicenda. Cosa accade quando l’emergenza coinvolge un’intera società? Come reagisce l’essere umano in caso di sospensione della normalità? La peste è protagonista nel suo continuo rapportarsi con ciò che va ad alterare, la scienza, le istituzioni, la fede, e così via. Lo racconta il dottor Rieux, dagli esordi (“La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo”), fino alla risoluzione positiva con la riapertura del cordone sanitario intorno alla città.

“Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.
A dire che il male è una latenza, che è connaturato all’umano, che esiste anche quando non è esploso, e che l’uomo dovrebbe imparare a vivere con questa consapevolezza.


Non solo. Quando si manifesta, la peste non si limita a uccidere alcuni, bensì modifica i pensieri e i cuori delle persone che sopravvivono, e in questo senso no, nessuno sopravvive alla peste: “Giunti alla fine della peste, con la miseria e le privazioni, tutti gli uomini avevano finito col prendere il costume della parte che recitavano ormai da molto tempo, quello degli emigranti il cui volto, prima, e gli abiti, adesso, esprimevano l'assenza e la patria lontana. Dal momento in cui la peste aveva chiuso le porte della città, non erano più vissuti che nella separazione, erano stati tagliati fuori dal calore umano che fa tutto dimenticare. Con gradazioni diverse, in tutti gli angoli della città, uomini e donne avevano aspirato a un ricongiungimento che non era, per tutti, della stessa natura, ma che, per tutti, era egualmente impossibile. La maggior parte avevano gridato con tutte le loro forze verso l'assente, il calore d'un corpo, l'affetto o l'abitudine. Alcuni, sovente senza saperlo, soffrivano di essersi messi fuori dall'amicizia degli uomini, di non esser più capaci di raggiungerli coi mezzi ordinari dell'amicizia, che sono le lettere, i treni e i bastimenti. Altri, più rari, come forse Tarrou, avevano desiderato di unirsi a qualcosa che non potevano definire, ma che gli pareva il solo bene desiderabile. E in difetto d'un altro nome, lo chiamavano talvolta la pace”.

Ancor più che gli effetti del morbo sulla società, ancor più che la cronaca sanitaria, Camus ci svela come la peste (e tutto ciò di cui è metafora) sia una grande opportunità di conoscenza del sé, e del sé nella relazione con l’altro. Cosa rappresentano davvero il contagio e la sua paura? La responsabilità del singolo come si connette a quella collettiva? Cosa resta del prima, nel dopo?

“Io mi sento più solidale coi vinti che coi santi. Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e per la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”: sono le parole del narratore Rieux. Essere un uomo, forse è questo quello che lega il prima al dopo.



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