Il XXI Rapporto Ismu racconta come si è evoluto nell'ultimo anno il panorama dei flussi migratori
Una novità, chiamiamola così, attesa: quella che emerge dall'ultimo Rapporto sulle Migrazioni - il ventunesimo, elaborato dalla Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) e presentato questa mattina nel corso di un convegno tenutosi presso il centro congressi di Fondazione Cariplo - è un dato di realtà che ci immerge ancor più nell'attualità degli ultimi mesi ed è relativo al dato sui migranti. La Fondazione Ismu stima che al 1° gennaio 2015 la popolazione straniera in Italia ha raggiunto 5,8 milioni di presenze (regolari e non), con un aumento di 150mila unità (+2,7%) rispetto all’anno precedente in cui gli immigrati erano quasi 5,6 milioni. |
I permessi di soggiorno per motivi familiari rappresentano il 40% degli ingressi nel 2014. Ismu stima che al 1° gennaio 2015 il numero di famiglie composte da 3-4 persone sia superiore al numero dei single (674mila contro 540mila). Tali cifre dimostrano che la popolazione straniera che vive in Italia è sempre più radicata sul nostro territorio. Elaborazioni Ismu su dati Istat del 2011-2012 mostrano che 4 stranieri su 5 sono inseriti in un nucleo familiare (inteso come un insieme formato da almeno una coppia con eventuali figli o da un genitore con figli). Le coppie con figli rappresentano il 59,6% dei residenti, quelle senza prole il 10,6%. I single incidono mediamente per il 21,6% e sono più presenti nelle grandi città: a Napoli sfiorano il 40%, a Milano il 34,9% e a Roma il 33%. Per quanto riguarda le cittadinanze è interessante notare che a detenere il primato per la quota di coloro che vivono in coppia con figli sono gli egiziani con il 74,5% dei residenti e i cinesi con il 73,2%, mentre il collettivo con più single risulta essere quello ucraino (46,3%). Il 10% dei minori di 18 anni vive con un solo genitore (in 4 casi su 5 si tratta della madre). La percentuale sale al 15% a Milano e al 20% a Roma e Napoli. Nella Capitale 1 minore ogni 6 vive unicamente con la madre, mentre a Napoli il rapporto sale a 1 ogni 7 e a Milano a 1 ogni 8.
Qualche dato più dettagliato per quanto riguarda l'ambito "lavoro".
Anche nel 2014 si è registrato un incremento degli occupati stranieri che sono aumentati di 111mila unità per un totale di 2.294.120, a fronte di una diminuzione (più lieve rispetto agli anni passati) dell'occupazione autoctona (-23mila). Dopo un lieve calo nel I trimestre 2015, il numero di occupati stranieri è tornato a crescere nel II trimestre, portando a un saldo positivo di 50mila unità rispetto allo stesso periodo del 2014. Anche l’occupazione autoctona segnala un saldo positivo (+129mila) rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, raggiungendo quota 20.136.000. Se ne evince che gli stranieri hanno superato la soglia del 10% del totale degli occupati. Tuttavia, l'andamento dei tassi di occupazione conferma il trend negativo che ha visto progressivamente contrarsi l'incidenza degli stranieri occupati e con essa il gap rispetto agli italiani. Se prima dell'inizio della crisi gli stranieri godevano di tassi di occupazione più elevati rispetto agli italiani, questo vantaggio si è man mano ridotto nell'arco degli ultimi 10 anni. Mentre infatti nel 2005 il tasso di occupazione degli stranieri era del 65,5% e quello degli italiani del 57,2%, nel 2014 si è passati rispettivamente al 58,5% e al 55,4%. Gli ultimi dati disponibili (secondo semestre 2015) ci segnalano che il tasso di occupazione degli stranieri si attesta al 59,2% (ovvero in lievissima diminuzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), mentre il tasso di occupazione degli italiani è stato pari al 56% (+0,6 punti percentuali rispetto al secondo trimestre 2014). Si conferma dunque la tendenza a colmare il gap: gli stranieri hanno tassi di occupazione sempre più “simili” a quegli degli italiani. La popolazione straniera registra nel 2014 un alto tasso di attività rispetto alla popolazione italiana (70,4% contro il 63,2%). Il gap, positivo per gli stranieri, rimane inalterato anche guardando agli ultimi dati disponibili: nel secondo trimestre 2015 il tasso di attività della popolazione straniera si è attestato al 70,7%, mentre quello della popolazione italiana è stato pari al 63,5%. L'alto tasso di attività degli stranieri in realtà nasconde alcuni aspetti critici. Disaggregando infatti i dati per fasce di età, i tassi di attività rivelano per la componente giovanile, un vantaggio solo apparente, che si spiega con la fuoriuscita precoce dei giovani stranieri dal sistema formativo (il tasso di uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione è pari al 34,4% tra gli extracomunitari, contro il 13,5% tra i giovani italiani). Quindi sebbene i figli degli immigrati abbiano tempi più rapidi di transizione tra la scuola e il lavoro (perché fortemente concentrati nella formazione professionale), incontrano poi maggiori difficoltà a stabilizzare la loro condizione occupazionale, hanno tassi di disoccupazione più elevati rispetto ai figli di italiani nella stessa fascia di età, sono sottorappresentati nei lavori qualificati e sono più esposti al rischio di overqualification. Gli stranieri inattivi sono 1,2 milioni, dei quali purtroppo oltre il 70% è costituito da donne. Esse sono escluse dal mercato del lavoro principalmente per la difficoltà che trovano nel conciliare l'impegno lavorativo con la necessità di accudire i figli o persone non autosufficienti. Inoltre la condizione di Neet (giovani non impegnati nello studio, né nel lavoro e né nella formazione) è particolarmente diffusa tra le giovani donne immigrate, fino a raggiungere incidenze altissime in alcune comunità: quasi 8 donne su 10 nel caso del Bangladesh, quasi 7 su 10 nei casi del Pakistan, Marocco ed Egitto. Oltre il 70% degli stranieri è impiegato come operaio e meno dell’1% come dirigente o quadro. Se poi ci limitiamo a considerare coloro che hanno un livello di istruzione universitario, solo il 35,7% degli stranieri (rispetto all’83% di italiani) svolge professioni intellettuali e tecniche, mentre il 23,2% svolge un lavoro manuale non specializzato (collocazione pressoché inesistente tra gli italiani con analogo livello di istruzione). I dati dimostrano che la maggior parte degli immigrati che si stabilizzano in Italia segue un percorso di mobilità discendente con poche possibilità rispetto alla posizione ricoperta prima di emigrare e con poche possibilità di fare carriera: dopo il primo lavoro quasi la metà degli stranieri non ne trova uno migliore, solo il 29,7% raggiunge un gruppo professionale superiore a quello di partenza, mentre il 23,6% (il 26,1% delle donne) transita in un gruppo professionale addirittura inferiore a quello iniziale. Anche questi sono indicatori di un mercato del lavoro che premia più la adattabilità a svolgere lavori di basso profilo che non il capitale umano degli immigrati. La popolazione immigrata presenta una ridotta capacità di reddito. In 4 casi su 10 gli stranieri percepiscono una retribuzione (o comunque dichiarano di percepire) non superiore agli 800 euro e soltanto nello 0,6% dei casi arrivano a guadagnare 2.000 euro. Tutto ciò si traduce, evidentemente, in una ridotta capacità di contribuzione fiscale che ne svilisce il potenziale contributo all’equilibrio dei conti pubblici. Nell’ambito del comparto agricolo gli immigrati nel 2014 hanno superato il 14% del totale degli occupati, ovvero circa il triplo dell’incidenza registrata agli albori della crisi. Sempre nel 2014 gli immigrati impiegati stagionalmente sono stati 300mila. Ma al di là degli aspetti virtuosi ricordiamo che il settore presenta non poche criticità, quali la sottoretribuzione (soprattutto al Sud) rispetto ai minimi sindacali e l’ampio impiego di lavoratori senza un regolare contratto. Nel 2014 le imprese con un titolare nato in un paese extraUe hanno raggiunto la quota di 335.452 unità, il 7% in più dell’anno precedente. Il tasso di creazione imprenditoriale da parte degli immigrati rimane quindi positivo nonostante la crisi economica. Ma le iniziative imprenditoriali degli immigrati hanno in qualche modo accentuato le ataviche debolezze del sistema delle microimprese italiane, alimentando spinte al ribasso tanto dei prezzi offerti quanto dei margini di guadagni. In molti casi infatti si tratta di ditte individuali, con il rischio che dietro le cifre si celino ampi volumi di “false partite Iva”.