Dopo tanto parlarne, com'è Expo 2015 e cosa vale la pena vedere.
| Era il 31 marzo 2008 quando il BIE (Bureau International des Expositions) assegnò l’organizzazione dell’Expo 2015 a Milano, prediligendola rispetto all’avversaria Smirne. L’intera amministrazione comunale dell’epoca, riunita alla Fabbrica del Vapore, ebbe solo un sussulto d’incredulità negli istanti che precedettero l’esultanza da stadio, quando per un attimo sembrò che l’assegnazione andasse alla città turca. Milano si presentava all’expo con un dossier di candidatura che puntava a mettere al centro del dibattito internazionale i problemi dell’alimentazione e della distribuzione delle risorse, e che includeva opere pubbliche quali, tanto per dirne un paio, le vie d’acqua e la linea 6 del metrò. Dopo numerose e ormai ben note vicende degli ultimi anni, tra cui l'inchiesta su tangenti e appalti che azzerò i vertici Expo,ora Expo è tra noi, in qualche modo e in una (più o meno) precisa forma materializzatasi tra un cardo e un decumano, tra una polemica e una retorica, coi suoi 32 viali e le sue cento contraddizioni, percorsi a tratti dai pupazzoni del bistrattato Foody e della sua allegra combriccola, Piera la Pera e Guagliò l'Aglio inclusi. Da venerdì primo maggio, giorno dell'apertura, ad oggi, le domande che più vengono poste sono due: com'è Expo (sottinteso: dopo tutto quello che se ne è sentito dire per anni, com'è veramente), e cosa vale la pena vedere. |
Fondamentalmente l'Esposizione Universale risponde al percorso che ha fatto per diventare quello che è, nel bene e nel male, e un po' più nel male che nel bene. Grande, troppo per visitarla in un solo giorno, semplice come struttura: i padiglioni si affacciano in sequenza sul decumano, intervallati dai cluster tematici e da una massiccia presenza di colossi del food. Ferrero, Lindt, Beretta, Citterio, chi più ne ha più ne metta, per non dire di Coca Cola e Mac Donald's, ben segnalati sulla mappa a differenza di altre realtà, minori o non commerciali. Bisogna un po' scovarle, le cose interessanti: tra i padiglioni che meritano una visita, quello dell'Azerbaijan, realizzato da italiani tra l'altro, ricco di installazioni interattive e molto suggestive, bello anche dal punto di vista architettonico; il padiglione austriaco, che riproduce una foresta e lavora sul tema dell'aria, perfettamente in linea col tema dell'intera expo; il padiglione Cinese, dove la fila è pressochè inevitabile, coi suoi ologrammi danzanti.
Ben fatto, col giusto equilibrio tra divertimento e apprendimento, il Children Park; e da non disdegnare una passeggiata nella disertata Collina Mediterranea, proprio di fianco allo Slow Food Theater. Ad alto tasso di delusione il Future Food District e la parte di Piazza Italia, così come il Biodiversity Park, soprattutto perchè il parco e la biodiversità stanno solo nel nome che porta.
L'impressione generale è che la piccola Disney di Expo non faccia che riprodurre quello che c'è fuori da Expo, nel mondo e nel quotidiano: qualcuno che s'informa, che cerca, curiosa, ascolta e innova, e molti in coda (soprattutto tra i più giovani) per un palloncino marchiato Happy Meal.
Il tutto su un'area, ricordiamolo, di 110 ettari, volendo a destinazione agricola.