Un monologo al Teatro della Cooperativa per raccontare la storia di un uomo e di una fabbrica piena di amianto

Adriano è il nome del protagonista, ma anche del padrone della fabbrica, Adriano Cecchetti, ma anche di quell’imperatore di cui si parla in un libro che all’operaio Adriano ha regalato suo figlio e che lui fatica un po’ a capire. “Capirai, inizia pure in latino...”.
Animula vagula blandula.
Un passato recente e difficile da digerire, lo stesso che si srotola nelle parole colorite dal dialetto di Adriano Campini detto Ninì, che racconta gli anni della fabbrica con l’orgoglio che contraddistingueva gli operai di quel tempo, fieri di indossare le tute blu e capaci di allacciare amicizie durature nonostante la fatica di un lavoro duro e massacrante. Come quella con Augusto, pugile col sogno di partecipare alle olimpiadi di Roma nel ’60, sogno interrotto da un incidente alla mano piccolo ma fatale. Uomini con un senso della dignità che sembra scomparso, esattamente come quel mondo in cui un operaio aveva un ruolo chiaro e definito all’interno della società.
Un testo con picchi di grande drammaticità ma asciutto e potente, fondato sulle ricerche e sulle memorie degli ex operai della Cecchetti, dove in 90 anni hanno lavorato circa 50mila persone. Dai primi anni lontani ad un oggi in cui il protagonista si alza presto e va dal medico, passando attraverso la presa di coscienza di appartenere alla classe sociale operaia, gli scioperi, i licenziamenti e la chiusura nel 1994 per mancanza di commesse a causa dell’amianto. L’amianto usato, toccato e respirato per anni che improvvisamente non andava più bene. “Noi ci facevamo la pennichella dopo pranzo, su quei sacchi pieni d’amianto” racconta Adriano/Felicetti, mentre, ormai in pensione, si alza presto, va dal medico e aspetta un treno senza orario.
Antiniska Pozzi