I sei mesi dell'Esposizione universale 2015 partono non sotto i migliori auspici e i milanesi dovranno districarsi non solo tra i prevedibili disagi di un'auspicata -ma non certa- invasione di visitatori ma anche tra i laudatores dell'Expo come motore di ogni possibile riscossa, ambrosiana prima e italiana poi, e chi sfrutterà una ribalta, indubbiamente planetaria, per ogni rivendicazione.
Sembra una destino ineluttabile, eppure tra i lustrini della kermesse e la protesta, il senso dell'Expo, e una riflessione su tutti i suoi limiti, sembrano destinati per l'ennesima volta a smarrirsi.
La sostenibilità dell'intera operazione è aggrappata a due fili assai sottili: il numero effettivo di biglietti venduti (ad oggi 10 milioni stando alle dichiarazioni ufficiali) che dovranno essere almeno 24 milioni per garantire il rientro dei costi previsti inizialmente; la soluzione dell'intricata vicenda dei terreni acquistati a caro prezzo da Regione e Comune e che per il momento non hanno trovato acquirenti, ma solo interessanti proposte per il loro impiego futuro.
In entrambi i casi sottolineare l'incognita, anche nel momento solenne del taglio del nastro e dei sorrisi in favore di telecamere, non è indelicato bensì indispensabile poiché l'intera partita Expo si gioca su un campo pubblico e con risorse che sono principalmente della collettività.
Riflettori e fanfare non possono impedire di domandarsi se i costi aggiuntivi dovuti alla necessità di colmare in qualsiasi modo i ritardi accumulati nei cantieri riusciranno ad essere coperti anche nella ottimistica eventualità che se si riuscissero a vendere 24 milioni di biglietti. Non è inopportuno interrogarsi sul destino di un'area di oltre un milioni di metri quadrati che è stata acquistata -a debito- con soldi pubblici e che difficilmente, in una congiuntura negativa del mercato immobiliare che non dà segnali significativi di ripresa, troverà acquirenti privati come era nelle intenzioni iniziali.
Comunque vada sarà un successo? Lo sapremo davvero solo il 1 novembre.