Milano è prossima a superare ancora una volta quota 1.300.000 abitanti, ma la popolazione attiva è sempre meno e nel lungo periodo il carico sociale non sarà sostenibile

Al di là delle soglie simboliche, fare i conti con la demografia implica la necessità di comprendere che si tratta di una “scienza lunga”, cioè capace di prevedere gli scenari sociali a lungo termine, che opera sulle relazioni tra quantità anagrafiche e sociali in cui può essere diviso l’insieme della popolazione.
Ciò significa, almeno per il dato milanese, che si deve tener conto di alcuni elementi che poco hanno a che fare con le cifre belle tonde che fanno notizia –al di là del fatto che i Milanesi nella seconda metà degli anni ’70 erano oltre 1.700.000 e che la soglia del 1.300.000 residenti fu toccata anche nel 2005– ma con la composizione demografica della città e con le caratteristiche che ne determineranno lo sviluppo sociale a medio e lungo termine con quello che ciò comporta in termini di struttura e organizzazione del welfare.
Ma è sotto la superficie dei numeri assoluti e del giubilo che accompagna i periodici micro baby-boom che bisogna guardare.
Si tratta di una questione di qualità e non di quantità delle popolazione. Ovvero di composizione anagrafica. Da questo punto di vista, al di là delle quantità assolute lo scenario è quello di un declino apparentemente irreversibile: negli ultimi 40 anni, all’ombra della Madonnina i bambini sotto i sei anni sono calati del 60%, mentre gli ultrasessantacinquenni sono aumentati di quasi il 40%. Più che di autunno demografico bisognerebbe parlare di era glaciale, per la quale se non fosse intervenuta la tiepida brezza dell’immigrazione, Milano più che una città somiglierebbe ad un circolo ricreativo per la terza età.
In questione c’è la capacità di una popolazione di assicurarsi un futuro demograficamente sostenibile: il che significa mantenere una preponderante fascia anagrafica attiva. Questo avviene con soli due strumenti possibili: la riproduzione e un’immigrazione giovane.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, esso è l’unico che per il momento funziona, anche se con un’intensità inferiore al recente passato.
Il nodo problematico riguarda i tassi di riproduzione. A Milano, da un ventennio ormai il tasso di fertilità delle donne italiane oscilla tra l’1,1 e l’1,3, cioè ben lontano da quel 2,1 che assicura il mantenimento della stabilità demografica. La novità recente riguarda le donne straniere residenti a Milano: il loro tasso di fertilità è di 1,8, anch’esso al di sotto della soglia minima di mantenimento.
Questo non ha soltanto effetti quantitativi a lungo termine, ma anche qualitativi. Significa cioè che la popolazione invecchia e il suo mantenimento da parte della collettività diviene sempre più oneroso. Dal 2004 a Milano la popolazione in età attiva è una minoranza del totale e ciò implica che l’indice del carico sociale (che indica il rapporto tra la popolazione tra i 15 e i 64 e la somma di quella al di sotto dei 14 anni e al di sopra dei 65) continui a crescere. Con quello che comporta in termini di costi. Questo valore infatti che nel 1981 era di 45,6 è ormai schizzato al di sopra di 54.
È probabile che tra poco Milano ritorni sopra quota 1.300.000 residenti, ma ci sarà poco da festeggiare.
B.P.