Oltre le politiche del panico esistono le strade per inserire i Rom nel tessuto della città, basta percorrerle

Mandarli via, a prescindere dalla loro condotta, solo perché ci sono e perché occupano il “nostro” territorio, perché sono zingari, vivono di elemosina e dormono nelle roulotte. Perché vivono nello sfacelo dei campi in cui sono costretti a vivere.
Solo perché per alcuni la coerenza dei propri (pre)giudizi, o l’aderenza a quelli del partito di riferimento, contano più della verità.
Ma se ci fosse la volontà di analizzare i fatti in maniera obiettiva, si scoprirebbe che i processi di integrazione e convivenza con questi gruppi nomadi, continuamente e letteralmente sballottati da una baraccopoli all’altra, sono possibili.
Alberto Farina, Consigliere di Zona 3 dell’Ulivo, ha seguito da vicino il “percorso sperimentale di integrazione sociale finalizzato all’autonomia economica e abitativa” avviato dalla Casa della carità nei confronti delle quindici famiglie che nell’estate del 2005 furono obbligate ad abbandonare il campo di via Capo Rizzuto. 71 rom vennero accolti presso le strutture del Ceas a Parco Lambro e in 3 appartamenti in via Varanini messi a disposizione della Provincia.
“Fu siglato con loro un Patto –ricorda Alberto Farina– che sanciva il comune impegno ad attivarsi positivamente nel percorso di integrazione rispettando alcune norme reciprocamente discusse e condivise”.
Dopo due anni vissuti nel pieno rispetto delle regole e in sintonia con i piani integrativi promossi dal Ceas, le famiglie dispongono oggi di una condizione economica sufficiente a sostenere le spese di affitto di un appartamento.
“Tutti i 15 capofamiglia hanno oggi un impiego regolare –prosegue Farina– e i tre di loro che svolgono ancora un lavoro saltuario seguono il corso per muratori promosso dalla Casa della carità, la Camera del lavoro ed Esem. Lavorano anche alcune donne, mentre 23 minori sono stati inseriti nelle scuole e iscritti al progetto voluto dal Ministero della pubblica istruzione ‘Ospitare l’infanzia’ mirato ad assicurare un percorso personalizzato per ciascun alunno grazie all’assistenza in classe di un educatore e alla partecipazione ad attività di doposcuola.”
Altra conquista è stata la nascita della Banda del Villaggio, una compagnia di musici che fino al 2005 viveva di elemosina suonando nei mezzi pubblici. Oggi gli otto componenti del gruppo hanno realizzato un cd, partecipato ad un film e suonato con artisti del calibro di Moni Ovadia.
Farina si è occupato anche del più recente caso Opera, ripercorrendo il difficile esodo dei 77 rom che nel dicembre 2006 vennero cacciati da via Ripamonti e sistemati per decisione concorde di prefettura, Comune, Provincia e Comune di Opera presso una tendopoli provvisoria nel Comune di Opera. Da qui, nel febbraio scorso, furono nuovamente indotti alla fuga in seguito all’agguerrita campagna anti-rom proclamata da alcuni cittadini operesi.
Le famiglie furono così “dirottate” verso Parco Lambro, trovarono sistemazione presso le strutture Ceas e furono anch’esse introdotte nel Piano integrativo con le stesse finalità dei rom di via Capo Rizzuto. Anche in questo caso il percorso di inserimento e cooperazione sta producendo risultati soddisfacenti.
L’integrazione insomma esiste ed è attuabile, ma sembra che debba necessariamente passare per il processo di sistematico sgombero dei campi nomadi. Eppure la vicenda dei Rom accolti dal CAES dimostra che sottratti alle politiche securitarie e alla speculazione politica, attivati percorsi di integrazione, essi possono inserirsi nel tessuto cittadino.
Invece, come pacchi postali senza mittente né destinatario, queste famiglie vengono prese e “spedite” in allocazioni provvisorie, in attesa di individuare una sistemazione adeguata che non arriva mai.
E nell’attesa –forse più del nuovo sgombero che della scelta di questa fantomatica sistemazione adeguata– si condanna il loro modo di vivere tra precarietà e degrado.
Giulia Cusumano