Un convegno dedicato ad una pratica diffusa nel nord Europa e che potrebbe offrire una soluzione all’emergenza abitativa

‘Housing sociale’: se non siete esterofili o non ne avete mai sentito parlare, non preoccupatevi, è un concetto abbastanza semplice, già piuttosto diffuso in molti paesi europei. Si tratta di un programma sperimentale volto alla costruzione di edilizia che consenta un mix abitativo con alloggi a canone sociale, moderato e convenzionato, oltre alla possibilità di vendita a prezzo convenzionato. In Olanda rappresenta il 36% del mercato residenziale totale. In Inghilterra il 22%, in Francia il 20%. In Italia, si sa, certe cose arrivano in ritardo, e a Milano si è iniziato a parlarne da poco.
Un tempo erano note come ‘case popolari’, per meglio dire “edilizia residenziale pubblica”: sia della Regione (ex IACP, poi Aler, che a oggi oggi gestisce, solo a Milano, 41.550 alloggi di proprietà) sia del Comune. Fatto è che questo patrimonio pubblico non è più sufficiente a rispondere al fabbisogno abitativo della città: già da parecchio tempo, a dire il vero, anche se la questione ultimamente è stata messa in risalto da varie voci. Il cardinale Tettamanzi ha detto che Milano rischia di diventare «una città di abitanti senza casa e di case senza abitanti». Il presidente della Provincia Penati ha ironizzato sul fatto che il capoluogo lombardo con l’Expo sarà una città per soli “paperoni”.
Il convegno, l’intesa bipartisan e le richieste alla Regione
Allora se ne parla, e si cerca di trovare una soluzione all’irrimediabile certezza che il pubblico non ha attualmente le risorse necessarie a costruire case per tutti: ed ecco che entra in gioco l’housing sociale, di cui si è discusso nel convegno organizzato dal Pd lo scorso lunedì 23 giugno a Palazzo Marino.
Oltre 16.200 sono le domande presentate per ottenere una casa popolare, ma secondo Carmela Rozza, Consigliere comunale del Pd, la domanda reale si aggira intorno alle 30.000, e potrebbe arrivare a 70.000 in occasione dell’Expo: numeri che impongono di ripensare il vecchio concetto di casa popolare, rivedendo la normativa regionale e aprendo ad operatori diversi dal pubblico.
Sono due delle fondamentali richieste dell’intesa tra maggioranza e opposizione in Comune: le case saranno costruite per quelle categorie di cittadini che non sono in grado di sostenere canoni e prezzi correnti nel mercato libero, troppo elevati e in continuo aumento. Giovani coppie, single, anziani, immigrati, famiglie a basso reddito ma anche del ceto medio messo in difficoltà da un mercato immobiliare esoso; oppure soggetti che hanno esigenze di una residenza temporanea collegata a condizioni di lavoro e di studio.
Ma per fare questo sembra indispensabile coinvolgere operatori privati, profit e non profit, disponibili ad investire le proprie risorse, come Fondazione Cariplo, coinvolta nella costruzione di alloggi in tre aree di Milano, intervento che verrà attuato attraverso un Fondo Immobiliare Etico, avviato nel 2006.
L’esempio Cariplo e le prime 3 aree milanesi dell’housing sociale
L’intervento sulle tre aree pubbliche via Figino, Cenni, Ferrari di cui si è parlato per la prima volta nel novembre 2006 e che prevedeva la costruzione di 771 alloggi entro il 2008, oltre ad essere un utile proclama in tempi sospetti di campagna elettorale, non è ancora stato realizzato per l’assenza delle relative norme della legge 12. Un grosso ritardo della Regione Lombardia, insomma. Ora la giunta proclamerà un bando, e da lì partirà il consueto iter del progetto.
Modalità dell’esperimento
Insomma, il pubblico ci mette le aree e una politica di sgravi fiscali (azzeramento degli oneri di urbanizzazione e dell’Ici - resa effettiva dal governo solo per le case Aler -, regime Iva speciale e canali privilegiati per gli accordi con le banche) e il privato i soldi, attraverso la costituzione di un fondo sociale a cui partecipa anche il pubblico (nel caso sopracitato la Regione Lombardia).
I criteri di assegnazione degli alloggi saranno ancorati ai redditi, ma nel rispetto delle percentuali di assegnazione per quote, questo per garantire quel mix abitativo (sociale, etnico, generazionale) di cui si è sentito spesso parlare ma che non si è mai visto realizzato. “Siamo ancora sul terreno della sperimentazione –fa notare Carmela Rozza– perché manca una normativa a sostegno necessaria per evitare che questa soluzione resti un unicum.”
Interrogativi
Nonostante l’housing sociale sembri una soluzione soddisfacente all’emergenza abitativa della città, alcune domande sorgono spontanee.
E’ normale che il settore pubblico ammetta la propria incapacità di fare fronte all’emergenza abitativa per mancanza di risorse sufficienti, quando il Comune di Milano spende circa 30 milioni di euro solo incarichi esterni –“consulenze d’oro” escluse– e perde 300 milioni di euro in operazioni di finanza creativa?
Secondo quale logica settori come quello dell’abitazione, della sanità e dei servizi alla persona vengono man mano dismessi dal pubblico e delegati al privato?
Sarà possibile costruire modelli gestionali efficienti che sappiano trovare un equilibrio tra la generosità sociale e il rispetto delle regole?
Antiniska Pozzi