Nell’ex scalo FS di Porta Romana i rifugiati per motivi umanitari vivono tra topi e rifiuti

Due chilometri e duecento metri. Meno di mezz’ora a piedi per passare dalle eleganti vie del centro ad uno scenario degno dei peggiori slums delle metropoli del sud del mondo.
Lo scalo ferroviario di Porta Romana è un’area di oltre 200.000 metri quadrati, che si estende da est a ovest per circa un chilometro, da Corso Lodi a via Ripamonti.
Una volta era il primo scalo merci all’interno dei confini cittadini, poi il suo ruolo è diminuito con lo svanire del settore industriale. Dozzine di binari invasi da cespugli e immondizia. Da qui una volta partivano anche i treni speciali che andavano a Lourdes. Adesso, sui pochi binari attivi, ci passano solo i convogli locali che vanno verso sud ovest e qualche locomotore diesel che traina i carrelli per la manutenzione. Entriamo dal cancello che dà su piazzale Lodi. Il cartello è minaccioso: “vigilanza armata!”, ma il catenaccio è aperto. Lasciamo alle nostre spalle il rumore e innanzi a noi comincia una processione di capannoni che si distende verso ovest, una fila di edifici bassi che una volta ospitavano i depositi e gli uffici degli spedizionieri.
Attraversiamo un fascio di binari in disuso e arriviamo al primo capannone. È una discarica. L’immondizia raggiunge le pareti. Chi vive nei capannoni che troveremo sul nostro cammino porta qui l’immondizia nella speranza, vana, che i topi diano una tregua. Il secondo capannone è occupato da una quarantina di persone: da una parte un gruppo di eritrei e sudanesi in fuga dalle loro guerre ai quali è stato concesso un permesso per motivi umanitari, dall’altro due famiglie di rumeni con alcuni bambini. Gli africani ci raccontano della loro fuga, la solita, affidata ai trafficanti di uomini e disperazione che li traghettano prima nel deserto e poi dalla Libia alle coste siciliane e calabresi. I Romeni non parlano, si rinchiudono dietro le porte pesanti. Per loro essere diventati comunitari ha contato assai poco. Il nucleo storico dei rifugiati si trova qualche decina di metri più in là. Sono negli ex uffici della ditta Crisafulli. Cartoni e coperte alle pareti, d’estate per proteggersi dal sole, d’inverno dal freddo. “Sette coperte d’inverno” dice Renè, il decano, una stanza tappezzata delle pagine dei giornali con le foto della sua Inter e le pareti istoriate di poesie. Renè e gli altri si sono organizzati attorno ad uno dei due rubinetti funzionanti dell’intera area. Nelle stanze sono una ventina. Un paio di marocchini, il resto provenienti dall’Africa subsahariana. Tutti con il permesso di soggiorno, nessuno con una casa.